L’esperienza del limite è una delle forze che da sempre muove la nostra esistenza. Una scintilla che accende i processi che portano a scoperte, invenzioni e a nuove soluzioni perché le condizioni di vita di molti -e ancora in troppi pochi casi: di tutti- migliorino.
Eppure, nonostante l’aspettativa di vita sia quasi raddoppiata negli ultimi cento anni, il nostro corpo fa esperienza di una traiettoria limitata, nello spazio, nel tempo e nelle energie che può spendere.
E così le nostre azioni, che talvolta coincidono con i nostri desideri, mentre altre volte non portano là dove le nostre ambizioni vorrebbero.
Se poi guardiamo alle relazioni, quante volte vorremmo essere compresi e capire, a nostra volta, gli altri? Eppure spesso si vive lì, in una terra di mezzo, navigando a vista tra il porto di partenza e qualche faro che punteggia qua e là la costa, a volte attraccando da qualche parte ma non nel porto di arrivo.
Così molti, forse tutti, cercano un rinforzo in qualche percorso, routine, idea, convinzione, abitudine, filosofia, credo, disciplina… Qualcosa che aiuti a fare i conti con il limite che percepiamo sempre e talvolta incontriamo.
Si vede chiaramente nello svolgimento di una disciplina marziale che ciascun praticante vive una prima fase di adattamento, spesso faticosa, cui segue una fase di crescita tecnica, spesso accompagnata da un certo entusiasmo. Una volta che la tecnica è interiorizzata, si entra in una fase in cui si fa esperienza di un limite ancora più grosso. Molto più potente del passare degli anni o della complessità di un programma tecnico via via più impegnativo.
A volte questo limite si maschera da noia per la routine che ogni percorso porta con sé: allenamenti ripetitivi, ambienti chiusi non aiutano certamente a fare i conti con la sensazione di sbattere contro un soffitto di vetro.
Altre volte questo limite prende le sembianze della frustrazione che arriva dal confronto. Gli altri sembrano sempre meno meritevoli di noi, meno impegnati di noi, meno capaci di noi, che siamo gli eletti che insegnano a Neo il Kung Fu. Ambienti dove in nome dell’uguaglianza e della gerarchia si onora il percorso di ciascuno dimenticandosi di valorizzare il talento laddove emerga, anche nell’ultimo dei principianti, possono oggettivamente risultare stretti. Del resto è il motivo per cui ciascun essere umano, a un certo punto, se ne va di casa e crea qualcosa di nuovo, anche se poi scopre di aver costruito né più né meno una versione aggiornata della medesima esperienza.
Altre volte ancora questo limite prende la forma di una lenta eutanasia della pratica stessa e delle relazioni, addebitando spesso alla forma fisica la ragione di un progressivo disinvestimento. Ambienti dove la dimensione fisica della pratica è votata alla prestazionalità, esattamente come ambienti in cui la preparazione atletica del gesto tecnico è trascurata, possono far fare un frontale con la realtà, specie se la realtà si chiama invecchiamento o un livello di pratica diverso dove ti rivoltano come un calzino a uno stage.
Potremmo andare avanti a lungo e girarci intorno.
Il punto è che il limite siamo noi stessi.
Tutto il resto del percorso in una disciplina serve per arrivare qui rimanere attaccati a questa evidenza.
Che fare?
Filosofia e parte del pensiero scientifico, perlomeno in certa parte dell’occidente, sono convinte che una progressiva integrazione tra essere umano e tecnologia possa determinare un nuovo balzo evolutivo, in cui l’essere umano si affranchi di certe debolezze che gli sono proprie. Questo transumanesimo però, non solo è una riproposizione di un tentativo vecchio come la Storia che possiamo conoscere ma, quand’anche fosse sensato (senza portare alle disumanizzazioni dei totalitarismi), non è altro che uno spostare il limite. Certamente non è affrontare il limite stesso.
Se guardiamo al piccolo grande mondo del tatami, una volta che si sbatte contro lo specchio e si conosce la vera causa di queste e altre sensazioni, ci sono tre atteggiamenti, che poi sono connaturati all’essere umano.
Ci si iberna in una serie di abitudini. Facciamo il nostro compitino, rimaniamo attaccati a quella che diventa una tradizione. Difficilmente qualcosa ci scalda il cuore, anzi, le novità pian piano ci turbano. C’è del valore nel diventare nostalgici e tradizionalisti. Solo che se oltre al fisico invecchia anche lo spirito, è un peccato.
Oppure si cerca di combattere l’inesorabile scorrere del tempo spremendosi più di quanto possiamo effettivamente dare. Corsa, corsetta, piscina, piscinetta, yoga, calisthenics, crossfit, mindfulness, vegetarianesimo, veganesimo, pappocci proteici, personal trainer, creme, cremine, keiko, special keiko, stage, seminar, intensive, meditazioni, trascendenze assortite e ricorsi a veggenti-astrologi-madrenatura. Tutto in un unico frullato da mandare giù insieme alle proteine al gusto cacao.
Oppure ancora si fugge e, prima di incollarsi al divano, si fanno le stesse cose del paragrafo precedente, ma in sequenza, non tutte insieme. Cercando altrove un riparo da questo limite che ci insegue.
Per forza ci insegue: siamo noi.
Allora forse è bene guardare lo specchio e sorridergli in risposta. E capire quali enormi spazi di miglioramento una pratica apre nel conoscere se stessi grazie a un continuo confronto fisico con gli altri.
Riconoscere che, nonostante tutto, sono più i movimenti che riesco a fare di quelli che non sono mai stato capace di fare o che non riesco più a fare;
Imparare a riconoscere davvero chi sono quando sono sotto stress e scoprire che quell’io che emerge non è da temere ma da accettare e da far stare alla luce;
Darsi degli obiettivi di crescita a prescindere dalla performance fisica;
Incarnare gli obiettivi di maturazione non dimenticando le performance fisiche;
Il limite diventa un alleato o un nemico. Per un praticante di Arti Marziali, mai una scusa.
Disclaimer: foto di Daniel Watson da Pexels